Dal sito di “Punto
Rosso”, un centro di cultura della sinistra milanese, riprendo un
articolo di Lord Keynes sul socialismo originariamente pubblicato
dalla rivista della inglese “Society for Socialist Inquiry” il 13
dicembre 1931. (S.L.L.)
Lord John. M. Keynes |
Oltre a due braccia e a
due gambe per l’oratoria, per il gesticolare e per il movimento, il
socialista ha due teste e due cuori che sono sempre in guerra gli uni
con gli altri. L’uno arde dal desiderio di fare delle cose perché
sono economicamente sane. L’altro non è da meno nel voler delle
cose che ammette essere economicamente insane.
Con economicamente sano
intendo miglioramenti nell’organizzazione, e così via, che sono
auspicati perché accresceranno la produzione della ricchezza; e con
economicamente insano ciò che avrà, o potrà avere, l’effetto
opposto.
C’è un’ulteriore
distinzione da fare. Le cose che sono economicamente insane vengono
propugnate per due insiemi di ragioni molto differenti. Le prime si
raggruppano attorno al perseguimento dell’ideale. Coloro che sono
influenzati da esso sono pronti a sacrificare il benessere economico
per il raggiungimento di beni più elevati: la giustizia,
l’eguaglianza, la bellezza, o la maggior gloria della repubblica.
Le seconde sono politiche: far crescere la tensione, attrarre
seguaci, attizzare la lotta di classe, irritare ed esasperare i
poteri esistenti e rendere il loro compito più difficile e forse
impossibile, in modo tale che la stessa forza degli eventi possa
spingere alla loro deposizione e sostituzione. Per questo alcune cose
possono essere propugnate nonostante siano economicamente insane, e
altre possono esserlo perché sono economicamente insane.
Questi tre motivi
coesistono, variamente combinati, nel petto di ogni socialista. Essi
possono essere visti in forma ingrandita, e quindi più chiara, nella
politica dei Bolscevichi, che cambiano o vacillano a seconda del
prevalere dell’uno o dell’altro motivo. Il credo marxiano, così
come mi appare, è che il terzo motivo, quello rivoluzionario,
dovrebbe prevalere nella prima fase, quella della conquista del
potere; mentre il primo motivo, quello pratico, dovrebbe prevalere
nella seconda fase, nella quale il potere è impiegato per preparare
la via. Il secondo, il motivo ideale, dovrebbe prevalere quando la
repubblica socialista emerge dal sangue, dalla polvere e dal
travaglio, e procede con le sue ali. La Rivoluzione, il Piano
Quinquennale, l’Ideale – ecco la progressione. Ma la separazione
tra le fasi non è tracciata con chiarezza, e tutti e tre i motivi
sono sempre presenti in qualche misura. Per rendere la cosa
comprensibile agli inglesi potremmo riassumere i motivi come quello
politico, quello pratico e quello ideale.
Ora, a mio avviso, è
estremamente importante sapere ciò che si sta facendo, in quale fase
ci si trova, e in che proporzione i tre motivi sono mescolati.
Da parte mia preferirei
definire il programma socialista come finalizzato al conseguimento
del potere politico, con un’attenzione diretta a fare in prima
istanza ciò che è economicamente sano, cosicché la comunità possa
successivamente diventare così ricca da potersi permettere ciò che
è economicamente insano.
Il mio scopo è l’ideale,
il mio obiettivo è quello di collocare le considerazioni economiche
in posizione subordinata; ma il mio metodo in questo momento
dell’evoluzione economica e sociale è quello di cercare di
avanzare verso il fine concentrandosi sul fare ciò che è
economicamente sano. Ci sono però altri, di ciò sono consapevole,
che preferirebbero, perfino in una crisi come quella odierna,
propugnare ciò che è economicamente insano, perché credono che
questa sia la migliore via per conquistare il potere politico (che
rimane comunque il primo passo). Per loro l’unico mezzo per
realizzare un nuovo sistema è quello di rendere il sistema esistente
ingovernabile.
Secondo me questo modo di
pensare è erroneo, perché la rovina del vecchio sistema, lungi dal
rendere la costruzione del nuovo tecnicamente più semplice, può, al
contrario, renderla impossibile. Poiché sarà solo sulla base delle
accresciute risorse, non sulla base della povertà, che il grande
esperimento della repubblica ideale dovrà essere portato avanti. Non
mi nascondo la difficoltà di far crescere la tensione sociale quando
le cose vanno ragionevolmente bene. Ma considero che proprio questo
sia il problema che deve essere risolto. Radicarsi profondamente
nelle migliori intelligenze e nei più acuti e forti sentimenti della
comunità, per riuscire a mantenere alta la tensione anche quando le
cose vanno ragionevolmente bene; crescere non sulla spinta della
miseria e dello scontento, ma sull’energia viva della passione per
la giusta costruzione di una società valida – questo è il
compito.
Ciò mi porta alle
perplessità quotidiane sul socialismo britannico, e forse sul
socialismo ovunque, così come lo vedo. Il problema pratico, il
problema di come fare quello che è economicamente sano, è
prevalentemente un problema intellettuale e, come accade, un problema
molto difficile, sul quale c’è molto dissenso. Ma sul piano
intellettuale un’ampia componente, probabilmente la componente
prevalente, del Partito Laburista è all’antica e perfino
anti-intellettuale. Uno dei guai degli scorsi anni va individuato nel
fatto che i leader del Partito Laburista si sono distinti dai leader
degli altri partiti nell’esser più disposti a fare o a rischiare
cose che nei loro cuori pensavano essere economicamente sbagliate, ma
allo stesso tempo essi non si trovavano fondamentalmente in dissenso
nelle loro menti con gli altri partiti su ciò che è economicamente
sano o insano. Le idee dell’On. Thomas, ad esempio, su ciò che è
economicamente sano, sono, e sono sempre state, quasi esattamente le
stesse di quelle dei conservatori nazionalisti, Chamberlain e Amery,
e le idee del Visconte di Snowden sono state esattamente le stesse di
quelle degli economisti liberisti e deflazionisti come l’On.
Runciman o Sir Herbert Samuel o Lord Grey. Essi non hanno avuto
alcuna simpatia nei confronti di coloro che avanzavano delle nuove
nozioni su ciò che è economicamente sano, sia che gli innovatori
avessero ragione o torto. E questo stato di cose è profondamente
radicato nel Partito Laburista. Poiché quanto ho appena detto vale,
nell’insieme, per molte altre tra le più rispettate colonne del
partito.
Ora, questo pone il
Partito Laburista in una posizione flebile quando – com’è
accaduto la scorsa estate in conseguenza della deflazione – il
paese piomba nei guai ed emerge un’incontenibile e generale
richiesta di soluzioni pratiche, e tutti esigono che, almeno per i
tempi in corso, si dia seguito a ciò che è economicamente sano.
Poiché comporta che in una simile congiuntura la maggior parte dei
leader del Partito Laburista concordano profondamente con i loro
oppositori, cosicché, avendo una cattiva coscienza, diventano
altamente inefficaci dal punto di vista pratico del governo. Il
governo laburista si trovò in una situazione disperata lo scorso
agosto, poiché la maggior parte dei suoi membri credeva
coscienziosamente nel goldstandard e nella deflazione attuata
con sacrifici, e non era preparata a sbarazzarsi di queste cose. Ma
allo stesso tempo essi non erano preparati a sbarazzarsi dei motivi
ideali e politici sulla cui base erano cresciuti.
Pertanto il primo compito
del Partito Laburista, se vuol far presa, è, per come la vedo, di
diventare intellettualmente emancipato nei confronti di ciò che è
economicamente sano, senza perciò perdere la sua forza politica e la
sua organizzazione, così profondamente radicata nella vita sociale e
economica dell’Inghilterra, e senza abdicare ai suoi ideali e ai
suoi obiettivi ultimi.
Poiché nel mondo
contemporaneo si deve scegliere tra l’uno e l’altro. Vale a dire
che deve prevalere il motivo rivoluzionario o quello pratico. Niente
ti colloca in una posizione più insulsa, o che comunque chiama il
disprezzo dei cittadini inglesi, del non sapere, quando si avanza una
proposta, se lo scopo viene perseguito perché è economicamente sano
o perché è insano. Nessuno sapeva alle ultime elezioni su quale
gamba il Partito Laburista poggiasse, e meno di tutti lo sapevano i
membri del partito.
Da parte mia solleciterei
un’evoluzione con la quale si riconoscesse che ci troviamo in un
momento in cui è desiderabile concentrarsi su ciò che è
economicamente sano. Ci sono due buone ragioni per ciò. Innanzi
tutto, accade che le riforme più urgenti che sono economicamente
sane non ci distolgono, come fecero in giorni trascorsi, dal
perseguimento dell’ideale. Al contrario esse puntano dirette su di
esso. Sono convinto che quelle cose che sono urgentemente richieste
su un terreno pratico, come il controllo centrale degli investimenti
e una diversa distribuzione del reddito, tale da fornire un potere di
acquisto che garantisca uno sbocco all’enorme prodotto potenziale
garantito dalla tecnica moderna, tenderanno anche a produrre un
migliore tipo di società su un terreno ideale. C’è probabilmente
una minore opposizione oggi tra l’obiettivo pratico e quello
ideale, rispetto a quanta ce n’è stata fino ad ora.
In secondo luogo c’è
così tanto da sperare oggi dal perseguimento di ciò che è
economicamente sano, che è nostro dovere offrire a questo motivo la
sua opportunità. Esso può infatti consentirci di risolvere una
volta per tutte il problema della povertà. Attualmente il mondo è
ostacolato da un fenomeno che avrebbe sorpreso i nostri padri – dal
fallimento dell’economia nello sfruttare le possibilità offerte
dalla tecnica produttiva e distributiva; o, piuttosto, la tecnica
produttiva ha raggiunto un livello di perfezione tale da rendere
evidenti i difetti dell’organizzazione economica che sono sempre
esistiti, anche se sono passati inosservati, e che hanno impoverito
gli uomini da sempre.
Con l’espressione
organizzazione economica intendo il modo per risolvere i problemi
inerenti all’organizzazione generale dell’impiego delle risorse,
che è diverso dai particolari problemi della produzione e della
distribuzione che sono appannaggio delle imprese. Nei prossimi
venticinque anni, secondo me, gli economisti, che sono attualmente i
più incompetenti, saranno il gruppo di scienziati più importante al
mondo. E c’è da sperare che – se avranno successo – dopo di
ciò essi non tornino più a essere importanti. Ma durante
quest’orrido intervallo, quando queste creature saranno importanti,
è essenziale che siano libere di risolvere il loro problema in un
ambiente quanto più possibile sgombro dalle distorsioni determinate
dagli altri motivi.
Questo perché essi hanno
già ampiamente dimostrato di essere, con il confuso oggetto del loro
sapere, tra gli uomini meno indipendenti dall’atmosfera
circostante, come la storia della loro teoria dimostra. Tutto ciò è
stato portato a maturazione, o almeno all’ordine del giorno, dai
radicali cambiamenti intervenuti nella tecnica moderna, specialmente
nel corso degli ultimi dieci anni, cambiamenti che sono stati
brillantemente descritti da Fred Henderson ne Le conseguenze
economiche dell’energia produttiva. Sin dai tempi di cui non
abbiamo nemmeno memoria i muscoli dell’uomo sono stati, per la
maggior parte degli scopi e delle operazioni produttive, la fonte
dell’energia, talvolta coadiuvati dal vento, dall’acqua o dagli
animali domestici. Il lavoro (labor), nel senso letterale, è
stato il fattore primario della produzione. Faceva una gran
differenza quando, per il trasporto o per altre operazioni limitate,
si aggiungevano altre fonti di energia.
Ma perfino l’impiego
del vapore e dell’elettricità e del petrolio non ha, di per sé,
determinato un cambiamento così radicale come quello causato dai
nuovi processi di produzione. Lo scopo principale delle nuove
macchine, fino agli anni più recenti, era quello di rendere il
lavoro, e cioè i muscoli umani, più efficienti. Gli economisti
potevano così plausibilmente sostenere che le macchine integravano
il lavoro, e non competevano con esso. Ma l’effetto degli ultimi
tipi di macchine è sempre di più, non di rendere i muscoli degli
uomini più efficienti, bensì di renderli obsoleti. E la conseguenza
è duplice. Innanzi tutto ci fornisce la capacità di produrre beni
di consumo, diversi dai servizi personali, quasi senza limiti; e
inoltre, di usare così poco lavoro nel processo che una quota sempre
crescente dell’occupazione umana deve essere impiegata o nel campo
dei servizi personali o nel far fronte alla domanda di beni durevoli
che, se il saggio dell’interesse fosse tenuto basso abbastanza,
saremmo ancora lontani dall’aver soddisfatto. Pertanto il sistema
economico deve confrontarsi con un problema di riaggiustamento che
presenta una difficoltà inusuale. Se è vero che questo sistema è
stato sempre malcompreso e maldiretto, se è vero che la sua
ipotetica armonia interna e il suo carattere autoregolantesi, sulla
cui base i nostri padri furono pronti a consegnare quel sistema al
laissez-faire, sono delle illusioni, è una conseguenza
naturale che gli eventi ci mostrino dove non siamo all’altezza del
compito. Il nostro primo compito è perciò di scoprire ciò che è
economicamente sano e farlo. Questo transitorio concentrarsi sul
motivo pratico rappresenta il migliore contributo che possiamo oggi
fornire al perseguimento dell’ideale.
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