Non vergogniamoci di
scoprire soltanto oggi un certo Plutarco. Dopotutto, chi sa di non
sapere è pronto a godersi i piaceri dell'ignoranza. Sapevamo tutti
che Plutarco di Cheronea (nato intorno al 47 d.C. e morto
presumibilmente nel 127) è l'autore delle Vite parallele,
libro famosissimo che ha ispirato gli spiriti più diversi:
Shakespeare, Montaigne, il furente Vittorio Alfieri, tanto per fare
qualche nome. E sapevamo che di Plutarco restano anche un'ottantina
di scritti, di varia proporzione e sui più vari argomenti,
comunemente chiamati alla rinfusa, e impropriamente, Opere morali.
Diciamo che sono dialoghi, trattati, prediche, divagazioni, a volte
un che di mezzo tra il saggio eil racconto. Forse perché difficili
da tradurre, per le qualità stilistiche e le sottigliezze lessicali,
sono pressoché sconosciute (rare e parzialissime le traduzioni
moderne in italiano).
La tarda tradizione
umanistica, quella stessa che ci ha afflitto con gli «eroi» delle
Vite, ha fatto un cattivo servizio a Plutarco, considerando
sommariamente «minori» queste cosiddette Opere morali.
Niente di più ingiusto. Ora che l'Adelphi comincia a pubblicarne un'
ampia scelta, a cura di Dario Del Corno, possiamo finalmente intuire
quale meraviglioso scrittore è Plutarco.
Il primo volume contiene due dialoghi, Il demone di Socrate e
I ritardi della punizione divina . La bella introduzione e la
nota filologica sono di Del Corno; le versioni, che mi sembrano
eccellenti, e le note al testo, sono di Antonio Aloni e Giulio
Guidorizzi. «All'affermazione di Adalbert von Chamisso, che l'uomo
felice è colui che scrive un libro, Plutarco avrebbe aderito
cordialmente; e si sarebbe considerato a buon diritto tra gli uomini
più felici del creato». Così, con molta grazia, dice Del Corno; e
difatti il Nostro sembra che di libri ne abbia scritti più di
trecento (87 son quelli conservati).
Gusto teatrale
Ma non si tratta soltanto di compiacersi, da bravi eruditi, di tanto felice e intensa quantità. Il curatore allude giustamente proprio alla felicità di scrivere che fluisce da queste pagine. Il primo dei due dialoghi, Il demone di Socrate, incantevole dal principio alla fine, intreccia complessità e leggerezza, conversazioni filosofiche e colpi di scena, cronaca e cosmologia, toni comici e drammatici, con abilità narrativa stupefacente. Rispetto al dialogo platonico che gli fa da modello, qui in particolare il Fedone, quello di Plutarco ha una qualità romanzesca, mirabile nell'invenzione degli ambienti e nella graduazione degli episodi; e rivela un fine gusto teatrale nel delineare gli atteggiamenti e le azioni dei personaggi, nel disporre i loro indugi, e le entrate e uscite dalla scena.
Gusto teatrale
Ma non si tratta soltanto di compiacersi, da bravi eruditi, di tanto felice e intensa quantità. Il curatore allude giustamente proprio alla felicità di scrivere che fluisce da queste pagine. Il primo dei due dialoghi, Il demone di Socrate, incantevole dal principio alla fine, intreccia complessità e leggerezza, conversazioni filosofiche e colpi di scena, cronaca e cosmologia, toni comici e drammatici, con abilità narrativa stupefacente. Rispetto al dialogo platonico che gli fa da modello, qui in particolare il Fedone, quello di Plutarco ha una qualità romanzesca, mirabile nell'invenzione degli ambienti e nella graduazione degli episodi; e rivela un fine gusto teatrale nel delineare gli atteggiamenti e le azioni dei personaggi, nel disporre i loro indugi, e le entrate e uscite dalla scena.
Ma qual è la scena?
Quella della cornice è Atene. Un gruppo di ateniesi filotebani, di
cui è portavoce un certo Archidamo, è ansioso di conoscere in tutti
i particolari l'insurrezione di Tebe contro i tiranni filospartani
avvenuta nel 379/8 a.C.. Nell'inverno di quell'anno, un manipolo di
esiliati era rientrato nascostamente in Tebe, unendosi ai patrioti
rimasti nella città. Gli insorti avevano ucciso i tiranni e i loro
sostenitori ripristinando la libertà. Uno dei patrioti, Cafisia,
fratello di Epaminonda, si trova in Atene qualche tempo dopo gli
avvenimenti; ed è lui che, interrogato da Archidamo, racconta la
storia.
La scena della narrazione è dunque Tebe; la cornice presto sfuma e prende campo la minuziosa relazione di Cafisia. Tebe è affolata di gelido vento, cade la neve. Alcuni dei congiurati fanno visita a un amico ammalato, Simmia (il tebano ammiratore di Socrate), e si trattiene a conversare con lui. La giornata deve apparire normale, il colpo è previsto per quella notte. La spericolata perizia di Plutarco sta nel tramare in uno stesso quieto-incalzante tempo narrativo i discorsi apparentemente astratti e le azioni concrete dei congiurati. Le discussioni iniziatiche e filosofiche, che si svolgono nell'attesa dilatata e angosciosa dell'insurrezione contro i tiranni, sono come sospese nella sequenza assai realistica degli eventi e incidenti che preparano l'insurrezione stessa (falsi allarmi, decisioni improvvisate che potrebbero far fallire l'impresa, timori di soffiate, e così via).
Le discussioni, tenute in casa di Simmia ammalato, servono a calmare e a schermare l'azione imminente; ma, soprattutto, forniscono una insolita profondità al tempo narrato. Mentre assistiamo, noi lettori, al dibattito filosofico, tendiamo l'orecchio verso le strade spazzate dal vento, poi dimentichiamo la congiura, finché il narratore non fa scattare un nuovo imprevisto: l'arrivo di due oligarchi o di uno straniero sconosciuto, i dubbi sulla lealtà di un congiurato, il sogno catastrofico di un ignaro cittadino, un cavallo senza morso, auspici favorevoli o sfavorevoli che costellano il lento progredire delle ore decisive.
Intanto, il dibattito non verte su argomenti da poco; anzi, il tema centrale è appassionante. Socrate ha fondato un nuovo costume filosofico: il «ragionare sobrio», come osserva uno degli interlocutori. Ma allora che cos'era il demone che in dati momenti Socrate diceva di sentire? Una oscura guida dell'intelletto, un istinto divinatorio, o un pensiero divino che fa segno all'uomo capace di comprenderlo? Certo, il demone non era una visione, era la comprensione di una voce, o meglio, di un discorso che lo raggiungeva in modo anormale. «L'oggetto di questa percezione non era un suono, ma lo si potrebbe definire il discorso senza voce di un demone, che aderiva alla sua mente con il solo significato». Molto acuta, e impossibile da dimostrare altro che con i fatti, è questa semiologia del demone: avvertiamo un significato senza che il significante si lasci vedere.
La scena della narrazione è dunque Tebe; la cornice presto sfuma e prende campo la minuziosa relazione di Cafisia. Tebe è affolata di gelido vento, cade la neve. Alcuni dei congiurati fanno visita a un amico ammalato, Simmia (il tebano ammiratore di Socrate), e si trattiene a conversare con lui. La giornata deve apparire normale, il colpo è previsto per quella notte. La spericolata perizia di Plutarco sta nel tramare in uno stesso quieto-incalzante tempo narrativo i discorsi apparentemente astratti e le azioni concrete dei congiurati. Le discussioni iniziatiche e filosofiche, che si svolgono nell'attesa dilatata e angosciosa dell'insurrezione contro i tiranni, sono come sospese nella sequenza assai realistica degli eventi e incidenti che preparano l'insurrezione stessa (falsi allarmi, decisioni improvvisate che potrebbero far fallire l'impresa, timori di soffiate, e così via).
Le discussioni, tenute in casa di Simmia ammalato, servono a calmare e a schermare l'azione imminente; ma, soprattutto, forniscono una insolita profondità al tempo narrato. Mentre assistiamo, noi lettori, al dibattito filosofico, tendiamo l'orecchio verso le strade spazzate dal vento, poi dimentichiamo la congiura, finché il narratore non fa scattare un nuovo imprevisto: l'arrivo di due oligarchi o di uno straniero sconosciuto, i dubbi sulla lealtà di un congiurato, il sogno catastrofico di un ignaro cittadino, un cavallo senza morso, auspici favorevoli o sfavorevoli che costellano il lento progredire delle ore decisive.
Intanto, il dibattito non verte su argomenti da poco; anzi, il tema centrale è appassionante. Socrate ha fondato un nuovo costume filosofico: il «ragionare sobrio», come osserva uno degli interlocutori. Ma allora che cos'era il demone che in dati momenti Socrate diceva di sentire? Una oscura guida dell'intelletto, un istinto divinatorio, o un pensiero divino che fa segno all'uomo capace di comprenderlo? Certo, il demone non era una visione, era la comprensione di una voce, o meglio, di un discorso che lo raggiungeva in modo anormale. «L'oggetto di questa percezione non era un suono, ma lo si potrebbe definire il discorso senza voce di un demone, che aderiva alla sua mente con il solo significato». Molto acuta, e impossibile da dimostrare altro che con i fatti, è questa semiologia del demone: avvertiamo un significato senza che il significante si lasci vedere.
Contro i tiranni
A me pare che il demone
di Socrate sia una stupenda metafora a cui è ricorso l'autore per
introdurre di soppiatto l'argomento teologico e farlo poi balzare in
primo piano. A un certo punto della discussione Simmia fa il seguente
ragionamento: «se un pensiero non espresso con suoni, ma pensato,
muove senza fatica un corpo, non dovrebbe essere difficile
persuadersi che una mente possa essere mossa da una mente superiore e
un'anima da un'anima più divina». A quest'anima più divina
conviene appunto il nome di demone.
E' ovvio che nel
dibattito delle opinioni si finisca per parlare del demone in
generale, e non soltanto di quello di Socrate; ed è curioso notare
che con la tipica escursione di Plutarco nei campi dell'ipotesi si
diano poi del demone una interpretazione sciamanica (l'ispirato, come
lo sciamano, è capace di allentare i legami della propria anima e di
abbandonare temporaneamente il corpo «vagando di notte e di giorno
per enormi spazi») e una interpretazione pitagorica (il demone
aiuterebbe le anime purificate). E le due interpretazioni si fondono
in una visione mitica raccontata da Simmia e attribuita a un certo
Timarco. Costui, disceso nella grotta di Trofonio (fondatore del
tempio di Delfi), era caduto in estasi e aveva viaggiato nell'adilà
scorgendo sia le paludi e gli abissi, sia i cicli dove fluttuano gli
astri, ossia i demoni degli uomini che hanno intelletto.
Qual è il senso dello
strano intreccio di mito e storia, come la cronaca della congiura si
unisce ai ragionamenti sul demone? Plutarco ha voluto accostare,
senza alcun riferimento esplicito, il più vicino e il più lontano?
Ha inteso rappresentare i suoi congiurati, non come eroi, ma come
uomini socratici, che prima dei momenti fatali, quando le ragioni
dell'azione non sono mai poste in dubbio, pur essendo in dubbio le
sorti dell'impresa, si rafforzano e si calmano conversando intorno ai
problemi ultimi? Da questi agli eventi della congiura c'è in
apparenza una distanza siderale. E ciò nondimeno, l'insurrezione
contro i tiranni e le questioni etico-filosofiche si appoggiano, nel
racconto di Cafisia, a una vigile attenzione dei particolari.
Plutarco è un visionario
minuzioso, appassionato delle distinzioni, patito per la lettura dei
segni, impegnato a comporre una ragnatela di possibilità, una
analogia narrativa del cosmo. Sotto questo aspetto, basterà notare
la funzione che svolge nel racconto la figura ombrosa e taciturna di
Epaminonda. Il quale partecipa alla congiura, predispone gli amici a
intervenire, ma si rifiuta di agire direttamente: «aggiunse che
senza processo non avrebbe ucciso nessun cittadino, a meno che non
fosse assolutamente necessario. D'altra parte al popolo di Tebe
conveniva che ci fossero alcuni senza responsabilità ed estranei
agli avvenimenti...»; qui si mescolano in modo magistralmente
inestricabile i dati del carattere, il rispetto del diritto,
l'opportunità politica e una sfumatura di cauta religiosità.
Ho dovuto trascurare il
secondo dialogo del libro, I ritardi della punizione divina.
Nel suo insieme non si può ritenere un capolavoro narrativo allo
stesso titolo del dialogo precedente, ma nell'ultimo terzo contiene
il racconto veramente straordinario di un mito orfico-pitagorico: la
rappresentazione pagana dell'antimondo dove sono punite le anime
peccatrici. E' un viaggio iniziatico che ricorda violentemente
l'inferno di Dante (il quale è assai poco probabile che abbia potuto
conoscere, sia pure indirettamente, il testo plutarcheo). «Orridi
quadri di tormenti fisici e morali si susseguono», riassume bene Del
Corno, «spinti alla frontiera del sadismo: sono spaventosi
contrappassi, gli ipocriti rovesciati con l'interno al di fuori, gli
avari immersi in metalli liquefatti, i progenitori avvinghiati da
stormi di discendenti costretti a scontare le loro colpe, che
infuriano e stridono come pipistrelli». E le anime incontinenti che
sono condannate a desiderare, gettate in «un sogno di piacere che
non trova compimento». Ma il visionario di Plutarco ha anche il
tempo di appena intravedere le anime liete, sfuggite al ciclo delle
rinascite, le anime che volano espandendosi nello spazio. Amici,
leggiamo Plutarco e meditiamo.
“la Repubblica”, 4
maggio 1982
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