1.4.14

Meraviglie narrative. Il demone di Plutarco (Alfredo Giuliani)

Non vergogniamoci di scoprire soltanto oggi un certo Plutarco. Dopotutto, chi sa di non sapere è pronto a godersi i piaceri dell'ignoranza. Sapevamo tutti che Plutarco di Cheronea (nato intorno al 47 d.C. e morto presumibilmente nel 127) è l'autore delle Vite parallele, libro famosissimo che ha ispirato gli spiriti più diversi: Shakespeare, Montaigne, il furente Vittorio Alfieri, tanto per fare qualche nome. E sapevamo che di Plutarco restano anche un'ottantina di scritti, di varia proporzione e sui più vari argomenti, comunemente chiamati alla rinfusa, e impropriamente, Opere morali. Diciamo che sono dialoghi, trattati, prediche, divagazioni, a volte un che di mezzo tra il saggio eil racconto. Forse perché difficili da tradurre, per le qualità stilistiche e le sottigliezze lessicali, sono pressoché sconosciute (rare e parzialissime le traduzioni moderne in italiano).
La tarda tradizione umanistica, quella stessa che ci ha afflitto con gli «eroi» delle Vite, ha fatto un cattivo servizio a Plutarco, considerando sommariamente «minori» queste cosiddette Opere morali. Niente di più ingiusto. Ora che l'Adelphi comincia a pubblicarne un' ampia scelta, a cura di Dario Del Corno, possiamo finalmente intuire quale meraviglioso scrittore è Plutarco.
Il primo volume contiene due dialoghi, Il demone di Socrate e I ritardi della punizione divina . La bella introduzione e la nota filologica sono di Del Corno; le versioni, che mi sembrano eccellenti, e le note al testo, sono di Antonio Aloni e Giulio Guidorizzi. «All'affermazione di Adalbert von Chamisso, che l'uomo felice è colui che scrive un libro, Plutarco avrebbe aderito cordialmente; e si sarebbe considerato a buon diritto tra gli uomini più felici del creato». Così, con molta grazia, dice Del Corno; e difatti il Nostro sembra che di libri ne abbia scritti più di trecento (87 son quelli conservati).

Gusto teatrale
Ma non si tratta soltanto di compiacersi, da bravi eruditi, di tanto felice e intensa quantità. Il curatore allude giustamente proprio alla felicità di scrivere che fluisce da queste pagine. Il primo dei due dialoghi, Il demone di Socrate, incantevole dal principio alla fine, intreccia complessità e leggerezza, conversazioni filosofiche e colpi di scena, cronaca e cosmologia, toni comici e drammatici, con abilità narrativa stupefacente. Rispetto al dialogo platonico che gli fa da modello, qui in particolare il Fedone, quello di Plutarco ha una qualità romanzesca, mirabile nell'invenzione degli ambienti e nella graduazione degli episodi; e rivela un fine gusto teatrale nel delineare gli atteggiamenti e le azioni dei personaggi, nel disporre i loro indugi, e le entrate e uscite dalla scena. 
Ma qual è la scena? Quella della cornice è Atene. Un gruppo di ateniesi filotebani, di cui è portavoce un certo Archidamo, è ansioso di conoscere in tutti i particolari l'insurrezione di Tebe contro i tiranni filospartani avvenuta nel 379/8 a.C.. Nell'inverno di quell'anno, un manipolo di esiliati era rientrato nascostamente in Tebe, unendosi ai patrioti rimasti nella città. Gli insorti avevano ucciso i tiranni e i loro sostenitori ripristinando la libertà. Uno dei patrioti, Cafisia, fratello di Epaminonda, si trova in Atene qualche tempo dopo gli avvenimenti; ed è lui che, interrogato da Archidamo, racconta la storia.
La scena della narrazione è dunque Tebe; la cornice presto sfuma e prende campo la minuziosa relazione di Cafisia. Tebe è affolata di gelido vento, cade la neve. Alcuni dei congiurati fanno visita a un amico ammalato, Simmia (il tebano ammiratore di Socrate), e si trattiene a conversare con lui. La giornata deve apparire normale, il colpo è previsto per quella notte. La spericolata perizia di Plutarco sta nel tramare in uno stesso quieto-incalzante tempo narrativo i discorsi apparentemente astratti e le azioni concrete dei congiurati. Le discussioni iniziatiche e filosofiche, che si svolgono nell'attesa dilatata e angosciosa dell'insurrezione contro i tiranni, sono come sospese nella sequenza assai realistica degli eventi e incidenti che preparano l'insurrezione stessa (falsi allarmi, decisioni improvvisate che potrebbero far fallire l'impresa, timori di soffiate, e così via).
Le discussioni, tenute in casa di Simmia ammalato, servono a calmare e a schermare l'azione imminente; ma, soprattutto, forniscono una insolita profondità al tempo narrato. Mentre assistiamo, noi lettori, al dibattito filosofico, tendiamo l'orecchio verso le strade spazzate dal vento, poi dimentichiamo la congiura, finché il narratore non fa scattare un nuovo imprevisto: l'arrivo di due oligarchi o di uno straniero sconosciuto, i dubbi sulla lealtà di un congiurato, il sogno catastrofico di un ignaro cittadino, un cavallo senza morso, auspici favorevoli o sfavorevoli che costellano il lento progredire delle ore decisive.
Intanto, il dibattito non verte su argomenti da poco; anzi, il tema centrale è appassionante. Socrate ha fondato un nuovo costume filosofico: il «ragionare sobrio», come osserva uno degli interlocutori. Ma allora che cos'era il demone che in dati momenti Socrate diceva di sentire? Una oscura guida dell'intelletto, un istinto divinatorio, o un pensiero divino che fa segno all'uomo capace di comprenderlo? Certo, il demone non era una visione, era la comprensione di una voce, o meglio, di un discorso che lo raggiungeva in modo anormale. «L'oggetto di questa percezione non era un suono, ma lo si potrebbe definire il discorso senza voce di un demone, che aderiva alla sua mente con il solo significato». Molto acuta, e impossibile da dimostrare altro che con i fatti, è questa semiologia del demone: avvertiamo un significato senza che il significante si lasci vedere.

Contro i tiranni
A me pare che il demone di Socrate sia una stupenda metafora a cui è ricorso l'autore per introdurre di soppiatto l'argomento teologico e farlo poi balzare in primo piano. A un certo punto della discussione Simmia fa il seguente ragionamento: «se un pensiero non espresso con suoni, ma pensato, muove senza fatica un corpo, non dovrebbe essere difficile persuadersi che una mente possa essere mossa da una mente superiore e un'anima da un'anima più divina». A quest'anima più divina conviene appunto il nome di demone.
E' ovvio che nel dibattito delle opinioni si finisca per parlare del demone in generale, e non soltanto di quello di Socrate; ed è curioso notare che con la tipica escursione di Plutarco nei campi dell'ipotesi si diano poi del demone una interpretazione sciamanica (l'ispirato, come lo sciamano, è capace di allentare i legami della propria anima e di abbandonare temporaneamente il corpo «vagando di notte e di giorno per enormi spazi») e una interpretazione pitagorica (il demone aiuterebbe le anime purificate). E le due interpretazioni si fondono in una visione mitica raccontata da Simmia e attribuita a un certo Timarco. Costui, disceso nella grotta di Trofonio (fondatore del tempio di Delfi), era caduto in estasi e aveva viaggiato nell'adilà scorgendo sia le paludi e gli abissi, sia i cicli dove fluttuano gli astri, ossia i demoni degli uomini che hanno intelletto.
Qual è il senso dello strano intreccio di mito e storia, come la cronaca della congiura si unisce ai ragionamenti sul demone? Plutarco ha voluto accostare, senza alcun riferimento esplicito, il più vicino e il più lontano? Ha inteso rappresentare i suoi congiurati, non come eroi, ma come uomini socratici, che prima dei momenti fatali, quando le ragioni dell'azione non sono mai poste in dubbio, pur essendo in dubbio le sorti dell'impresa, si rafforzano e si calmano conversando intorno ai problemi ultimi? Da questi agli eventi della congiura c'è in apparenza una distanza siderale. E ciò nondimeno, l'insurrezione contro i tiranni e le questioni etico-filosofiche si appoggiano, nel racconto di Cafisia, a una vigile attenzione dei particolari.
Plutarco è un visionario minuzioso, appassionato delle distinzioni, patito per la lettura dei segni, impegnato a comporre una ragnatela di possibilità, una analogia narrativa del cosmo. Sotto questo aspetto, basterà notare la funzione che svolge nel racconto la figura ombrosa e taciturna di Epaminonda. Il quale partecipa alla congiura, predispone gli amici a intervenire, ma si rifiuta di agire direttamente: «aggiunse che senza processo non avrebbe ucciso nessun cittadino, a meno che non fosse assolutamente necessario. D'altra parte al popolo di Tebe conveniva che ci fossero alcuni senza responsabilità ed estranei agli avvenimenti...»; qui si mescolano in modo magistralmente inestricabile i dati del carattere, il rispetto del diritto, l'opportunità politica e una sfumatura di cauta religiosità.
Ho dovuto trascurare il secondo dialogo del libro, I ritardi della punizione divina. Nel suo insieme non si può ritenere un capolavoro narrativo allo stesso titolo del dialogo precedente, ma nell'ultimo terzo contiene il racconto veramente straordinario di un mito orfico-pitagorico: la rappresentazione pagana dell'antimondo dove sono punite le anime peccatrici. E' un viaggio iniziatico che ricorda violentemente l'inferno di Dante (il quale è assai poco probabile che abbia potuto conoscere, sia pure indirettamente, il testo plutarcheo). «Orridi quadri di tormenti fisici e morali si susseguono», riassume bene Del Corno, «spinti alla frontiera del sadismo: sono spaventosi contrappassi, gli ipocriti rovesciati con l'interno al di fuori, gli avari immersi in metalli liquefatti, i progenitori avvinghiati da stormi di discendenti costretti a scontare le loro colpe, che infuriano e stridono come pipistrelli». E le anime incontinenti che sono condannate a desiderare, gettate in «un sogno di piacere che non trova compimento». Ma il visionario di Plutarco ha anche il tempo di appena intravedere le anime liete, sfuggite al ciclo delle rinascite, le anime che volano espandendosi nello spazio. Amici, leggiamo Plutarco e meditiamo.


“la Repubblica”, 4 maggio 1982

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