Ad Atene, alla prima
delle Nuvole di Aristofane, Socrate c'era. Malgrado venisse
sbertucciato e ritratto in un ridicolo pensatoio - una cesta appesa a
mezz'aria fra cielo e terra dove si muovono le nuvole - , seguì lo
spettacolo fino all'ultima battuta rimanendo sempre in piedi. Molti
si sono interrogati sul senso di quel gesto. Perché lo fece? Voleva
rendere esplicito il legame della commedia con gli spettatori, la
continuità e la contiguità fra scena e platea? Voleva, al
contrario, ribadire, in un modo così spiazzante, la sua totale
estraneità nei confronti del filosofo irriso nella commedia? Era un
segno di disprezzo verso il testo di Aristofane e gli Ateniesi che lo
ripagarono di lì a non molto di eguale moneta condannandolo a bere
la cicuta? Oppure, provocatoriamente, il gesto stava a significare
che lui, il filosofo che andava alla ricerca del perché delle cose,
assumeva su di sé anche quel risibile ciarlatano che faceva
prevalere il Discorso Debole su quello Forte, che misurava il salto
delle pulci e spingeva i figli a picchiare i padri?
Venezia, agosto 1975. Va
in scena ai Cantieri navali della Giudecca la mitica Utopia
tratta da cinque commedie di Aristofane (Cavalieri, Uccelli,
Lisistrata, Le donne a Parlamento, Pluto con un
prologo dalle Nuvole), ovvero come nascono , si alimentano,
s'infrangono e si dissolvono i miraggi, i sogni, le chimere, le
illusioni secondo Luca Ronconi. E dopo? Si ricomincia a sognare e a
illudersi, pronti a entrare in un altro sogno, in un'altra passione,
in un'altra agonia.
Siracusa, maggio 2002. Al
Teatro Greco si presentano Le rane firmate da Luca Ronconi,
che sono state precedute da una serie di «interventi» di censura
del viceministro Miccichè e della ministra Prestigiacomo contro
l'allestimento che contempla in scena alcune caricature-ritratti di
Bossi, Fini e Berlusconi. Lo spettacolo, come i nostri lettori sanno,
si fa senza le caricature suddette che il regista toglie non uscendo
poi a ringraziare, ma qualcosa si è rotto nella contiguità fra
scena e pubblico, le polemiche e le prese di distanza continuano a
lungo.
Morale: il teatro ai
tempi di Aristofane era una sorta di giornalismo anche politico, vero
living newspaper di cui lui era uno straordinario, ultra
tendenzioso, reporter. E oggi? Dove sembrano venir meno i valori
della convivenza civile anche il gusto di irridere e di ridere di se
stessi in pubblico perde d'importanza, anzi diventa quasi
impossibile. Ha proprio ragione Dario Fo, un Nobel preso di mira dai
soliti difensori della cultura patria per alcune anticipazioni sul
suo nuovo spettacolo: a volte c'è da rimpiangere la Dc.
Dunque: in una società
ultradegradata culturalmente è possibile la rappresentazione
teatrale? E Aristofane può ancora dare una risposta? Il punto di
vista è culturale, ma il culturale è sempre «politico» nel senso
che il commediografo greco conosceva molto bene: riguarda cioè la
vita della gente, lo spettro della guerra, le ingiustizie, la
corruzione, la libertà. Fra i tre esempi, quello di
duemilacinquecento anni fa, quello dell'altro ieri e quello di appena
ieri è rintracciabile un filo rosso che li collega strettamente e
che nasce dal ruolo del teatro nella società, ma anche da tutto il
senso della parabola della commedia aristofanesca, che, per certi
aspetti (i fatti, gli eventi storici), appare lontana da noi se la
parola scritta non tiene conto della sua realizzazione scenica, di
quell'equilibrio precario e meraviglioso che si istituisce fra
l'invenzione del drammaturgo e gli eventi scenici. È il teatro,
infatti, il trait d'union che realizza il compromesso fra le
due forme antitetiche di comunicazione - l'oralità e la scrittura -
in un copione che fissa non solo le parole del drammaturgo ma anche i
materiali dell'interpretazione.
Da qui nasce la domanda
di tutte le domande: come rappresentare, oggi, un testo classico, per
esempio Aristofane? Si insegue il rigore filologico nel copione e
nella rappresentazione (per quel che ne sappiamo) quasi a ricostruire
quella che doveva essere la scelta e la volontà dell'autore? Oppure
si rispetta il testo ma nelle scene si trasporta il tutto in un altro
tempo, più vicino al nostro o comunque funzionale per capire la
lettura, il senso che si deve dare alla messa in scena? O ancora: si
lavora sul testo, con tagli e nuove traduzioni, e magari si
sostituiscono i riferimenti indicati dall'autore con altri a noi più
vicini? Certo il recupero ha un costo e non deve destare scandalo una
certa infedeltà testuale che può permettere di arrivare alla
riscoperta della vera polpa, la fantasia straordinaria,
rintracciabile nelle commedie di questo autore se la si libera dalle
allusioni troppo connotate e che solo i contemporanei potevano
comprendere.
Spiega Luca Ronconi:
«Quello che conta è l'energia originaria e non la realtà attuale.
L'unica attualità sta nel nostro occhio di lettori, non
nell'origine». Il cabaret, la rivista all'italiana, il teatro dei
clowns, la danza più frenetica, la musica pop, tutto può rimandare
ad Aristofane, rappresentato come un cabaret politico perfino al
Berliner Ensemble, negli anni del profondo sonno della Ddr, da Benno
Besson.
E c'è rispondenza fra i
funambolismi di Aristofane e alcuni momenti dello spettacolo non solo
italiano e non solo teatrale: quante volte abbiamo accompagnato,
ridendo, le stralunate gesta con cui Charlot, erede inconsapevole dei
personaggi aristofaneschi, ristabilisce la verità dell'innocenza di
fronte alle insidie dei malintenzionati o al guasto delle
circostanze? Lo fa, come nota Umberto Albini, grande grecista
innamorato del teatro, anche Roberto Benigni che gioca con esuberanza
sulla scomposizione e ricomposizione delle parole e dei nomi (il
celebre «berlinguerre, Berlinguer» di Cioni Mario, per esempio),
sull'incastrarsi vorticoso dei termini affini, sullo scambio di ruolo
tra le varie parti del discorso, sulla trasformazione di nomi di
persone in insulto, sulla decodificazione ingiuriosa. E Bergonzoni,
abilissimo costruttore di nonsense che partono per la tangente per
creare infinite sottospecie per gemmazione spontanea. E Daniele
Luttazzi con le sue continue provocazioni corporali e politiche.
Sappiamo però che le opere dalle quali tutto questo flusso satirico
proviene appartengono a un altrove, a un'altra epoca, dunque.
Prendiamo Utopia che, a quasi trent'anni dalla sua andata in
scena, visualizza ancora in modo esemplare un percorso possibile. In
Utopia Ronconi voleva fare dire ad Aristofane delle cose per
oggi, fare nascere da lui delle situazioni significative. Non si
preoccupava del fatto che Aristofane fosse reazionario, come di fatto
era (sia pure in un'accezione ben diversa da quella che si dà oggi a
questo termine) e lo assumeva non tanto come documento di un'epoca
quanto come una lievitazione del desiderio che tenta di realizzarsi.
Non c'era neppure un simbolo dell'Atene che fu (neppure nelle più
recenti Rane, peraltro) ma una modernizzazione che non era
attualizzazione del testo quanto delle immagini. Tutto era in
movimento in questo spettacolo, tutti si muovevano a piedi, di corsa,
su rotelle, su ruote, perfino l'aereo che rappresentava il dominio
dell'aria degli uccelli. L'uomo in automobile era il protagonista:
era il «popolo» dell'antica Atene che si era motorizzato e che al
posto del Bengodi agricolo correva verso tutti i beni di consumo che
ben conosciamo.
Da lì, da quell'Utopia
del disincanto, si può ben dire che il modo di rappresentare
Aristofane sia cambiato e non solo in Italia, anche se nel corso
degli anni, c'è stato un ritorno di lavori tradizionali di buon
livello sostenuti da traduzioni innovative e ficcanti. Senza quello
spettacolo, però, senza i fiumi di parole spese contro o a favore di
quello spettacolo, non avrebbero avuto diritto di cittadinanza sulla
scena altre realtà urbane, altre emarginazioni come se l'Atene di
Aristofane fosse in ogni luogo, in qualsiasi città dove abitasse il
sogno, l'utopia appunto, di un mondo migliore da edificare e dove le
commedie di Aristofane acquisivano, per così dire, una valenza
generazionale. Per esempio nei notevoli Uccelli, anni '80, di
Memè Perlini, fuga dei due protagonisti, Evelpide e Pistetero, da
un'aula scolastica concentrazionaria, fra aspiranti parricidi e
divinità vampiresche e la musica di un gruppo che allora andava per
la maggiore, gli Area, un non-musical (a quello avevano già pensato,
nei lontani anni Cinquanta, Garinei&Giovannini con Un trapezio
per Lisistrata) dove il commento sonoro fra jazz e free jazz, fra
bop e improvvisazione mescolati a ritmi orientali ed africani aveva
la medesima incidenza della parola.
Poi ci sono state altre
emarginazioni, il confronto con le culture di altri popoli come in
All'inferno!, Aristofane adriatico-africano messo in scena per
Ravenna Teatro da Marco Martinelli negli anni '90 con una compagnia
formata da attori bianchi e attori senegalesi, pensato non solo come
un assemblaggio di testi (Pluto, Le rane, I
cavalieri), mescolati a miti e problemi del continente nero, ma
proprio come un'Ade barbarica e postmoderna del tutto simile a un
autogrill, in un mescolarsi di lingue e di culture. Un labirinto
testuale frammentario e complesso, fra forti sonorità primitive, uno
sproloquiare sulla nostalgia di un passato integro (e forse di
Aristofane stesso) contro l'onnipotenza dell'etere e della realtà
virtuale che, a risentirlo oggi, farebbe venire i brividi. E pensare
che Hegel sosteneva che se non si è letto Aristofane non si può
sapere quanto grande sia nell'uomo la capacità di allegria. Ma oggi?
L'Unità, 24 Ottobre 2003
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