Gide diceva che
«Montaigne è il primo di quei cattolici non cristiani che fanno
professione di sottomissione a Roma e che tuttavia ignorano Cristo».
Roma è la «Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana», dalle cui
«sante risoluzioni e prescrizioni» Montaigne non intende deviare.
Quanto a Cristo, non è del tutto vero quel che scrive Sergio Solmi,
che il gentiluomo francese «nelle sue pagine mai nomini il Cristo»;
ma è certo che il numero di volte che lo nomina, nel suo unico libro
sterminato e straordinario, si conta sulle dita di una mano.
L'editrice Adelphi pubblica ora una splendida edizione degli Essais
(Saggi) a cura di Fausta Garavini, con appendici di grande
interesse, come la riproduzione delle sentenze iscritte sulle travi
della biblioteca di Montaigne, situata nella torre del suo castello,
e una nota sulla lingua cinquecentesca dell'autore, del cui stile
Voltaire scriveva che «non è puro, né corretto, né preciso, né
nobile», ma «semplice e familiare, e sa esprimere ingenuamente
grandi cose».
Il primo volume è aperto
dal bel saggio di Sergio Solmi, La salute di Montaigne. Forse
Pascal, quando con disappunto vedeva nel «divertimento» il rimedio
a disposizione dell'uomo per allontanare da sé i pensieri tristi e
circondarsi di un po' di serenità e di «salute», pensava, più che
alla caccia alla volpe, ai Saggi di Montaigne, dove lo
splendore del «divertimento» non fa dimenticare nulla della
ricchezza terribile della vita, ma fa sgorgare la serenità dalla
contemplazione della vita. Che poi era la vita stessa di Montaigne:
«sono io stesso la materia del mio libro», «un argomento tanto
frivolo e vano», come egli scrive nella prima pagina, ma trovando
modo più avanti di osservare di non aver mai veduto al mondo un
miracolo più straordinario e inintelligibile di se stesso.
«Che sciocca idea ha
avuto Montaigne di dipingersi!», scrive Pascal, «e farlo in nome
delle sue proprie massime! Poiché dire delle sciocchezze per caso e
per debolezza è un male che non ha nulla di straordinario; ma dirle
di proposito, questo è insopportabile, e dirne di talicome le sue!».
(Tra l'altro Montaigne era poco decoroso agli occhi di Pascal. Si
permetteva di raccontare aneddoti come questo: fu domandato a un
filosofo, sorpreso a far l'amore, che cosa facesse, ed egli rispose
con molta freddezza: «Pianto un figlio»).
«Che idea affascinante
ha avuto Montaigne di dipingersi ingenuamente come ha fatto!»,
scrive invece Voltaire. «Poiché egli ha dipinto la natura umana. E
quel povero tentativo di Nicole, di Ma-lebranche, di Pascal di
screditare Montaigne!».
Sotto questa divergenza
di opinioni c'è il problema del significato della parola Essai,
che vuoi dire «prova», «saggio», «assaggio». Nel Sedicesimo
secolo un gentiluomo francese di grande ingegno che ha avuto una
cultura letteraria e giuridica, «assaggia» un gran numero di testi
della classicità latina e greca, soprattutto moralisti e poeti. I
grandi testi filosofici sono sfogliati solo in quelle parti che
interessano il moralista. La conoscenza accurata di Seneca, del
grandissimo Lucrezio, di Cicerone è più che sufficiente anche per
un grande scrittore come Montaigne. Ma gli altri, i massimi
pensatori, Montaigne non li capisce. E lo dice. Poi gli sembra di
poter dire qualcosa di più: che non è che non li capisca, ma che
per gli uomini rimane un mistero se i filosofi dicano il vero o il
falso.
È forse di qui che ha
avuto inizio quella sterminata coorte di letterati (ma anche di
scienziati e perfino di filosofi) che, più o meno vicini al genio di
Montaigne, si illudono di spacciare come «liquidazione» della
grande tradizione filosofica quella che invece è soltanto la loro
incapacità di capire la filosofia.
L'Europeo, 10 gennaio 1983
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