Il
culto più antico di Priapo ebbe sede a Lampsaco, la città in cui,
secondo il mito, il dio sarebbe nato da Afrodite, ma era
caratteristico di tutto il territorio dell'Ellesponto (l'odierno
stretto dei Dardanelli su cui Lampsaco insisteva). Da quest'area il
culto del dio si sarebbe diffuso prima in alcune città di Libia,
quindi in tutto il mondo greco, che ne mostra diverse tracce fin dal VI sec.
a. C.. Fiorì soprattutto in epoca ellenistica, e a Roma solo a
partire dall'epoca di Augusto. Il testo che qui “posto”, di uno
studioso francese, documenta il modificarsi nel tempo di questo
culto, cercando di individuarne, sulla base della simbologia, le
significazioni di fondo. (S.L.L.)
Museo Archeologico Nazionale di Napoli Decorazione di un vaso attico del VI sec. a. C. |
Io ero una volta un
tronco di fico,
legno senza valore,
quando un artigiano,
non sapendo cosa fare
di me, uno sgabello
o un Priapo, si decise
per il dio.
Orazio, Satire, I, 8
Alla sua nascita, Priapo
fu rifiutato da sua madre Afrodite, a causa di una deformazione
oscena che avrebbe segnato tutto il suo curriculum mitico. A
differenza dei suoi compagni fallici del tiaso (associazione di
carattere religioso) dionisiaco, i Pan e i Satiri (che, come essere
ibridi, mescolano l'uomo alla bestia), Priapo era perfettamente
umano. Non aveva né corna, né zoccoli, né coda. In effetti, la sua
sola anomalia, la sua unica infermità, era questo fallo esorbitante
che lo definisce, dalla nascita, come àmorphos, laido e
deforme, e che convinse Afrodite a rinnegare questo fanciullo che le
era nato sulle rive dell'Ellesponto, a Lampsaco. Così, quando uno
scolio del monaco siriaco Nonnos precisa che l'effigie di Priapo
somiglia a un bambino la cui appendice fallica risulterebbe
sproporzionata, il doppio difetto d'un fallo troppo grande e di una
statura troppo piccola del dio appare in tutta la sua dimensione
ellenica. Per i greci essere troppo piccolo era indice di bruttezza e
Priapo, divus minor, non soltanto era spesso raffigurato come
un nano ma era definito anche «il più vile e l'ultimo degli dei».
L'ESPULSIONE DA LAMPSACO
Un mitografo racconta che
Priapo, divenuto adolescente, aveva un «grande strumento» (ingens
instrumentum), che piaceva molto alle donne di Lampsaco e che era
disposto a generare cittadini. Essendosi attirato l'odio di tutti gli
altri uomini della città, fu promulgato un decreto e il dio fu
esiliato. Ma, prosegue il mitografo, questa fu una grande disgrazia
per le donne che lo rimpiangevano molto e pregavano gli dei di venire
loro in aiuto.
Dopo un certo tempo in
cui nulla accadde, una malattia colpì il sesso di tutti gli uomini.
Allora, per rimediare a questa epidemia, si interrogò l'oracolo di
Dodona (nell'Epiro), che assicurò che il flagello non sarebbe
terminato se Priapo non fosse stato richiamato in patria. Ciò fu
fatto immediatamente e, in seguito, la città di Lampsaco elevò
templi e offrì sacrifici a Priapo, che fu allora chiamato dio dei
giardini. L'esclusione di Priapo, il cui ingens instrumentum
turbava i cittadini di Lampsaco, l'aveva ridotto al rango di dio
itifallico (col fallo in erezione) dei giardini. Diretto ora contro i
malintenzionati o il malocchio e divenuto, in qualche modo, il
guardiano dell'ordine stabilito, il membro smisurato identifica
Priapo dandogli la configurazione necessaria a una delle sue funzioni
maggiori: quella di essere un dio che protegge le piccole colture
minacciando, con il suo fallo aggressivo, quelli che passano,
invidiosi, ai bordi del recinto del suo giardino. È il guardiano
campestre, la cui autorità fallica irrisoria fa ridere, e che,
dall'epoca ellenistica, si trova istallato nei giardinetti dei
priapei greci e latini. Ma là non cresce nulla. A malapena resta a
Priapo qualche legume o una vigna rinsecchita da sorvegliare. E i
passanti deridono questo dio che, a forza di minacce oscene, impiega
tanta energia per proteggere così poca cosa. Infine, che resta a
Priapo? Nulla o quasi.
UNA DIVINITÀ MISERABILE
Per meglio accordarsi a
un tale ambiente, Priapo è generalmente mal confezionato, da volgari
artigiani, nel «legno senza valore» di cui diceva Orazio; e
Columella, nel suo De re rustica, consiglia gli orticultori di
onorare Priapo in un «tronco di vecchio albero sbozzato a caso».
D'altronde, se si guarda alle offerte che gli antichi facevano a
Priapo, le si scoprono mediocri come la sua effigie o come le colture
che egli era chiamato a proteggere: qualche fico rattrappito e rari
frutti. Oppure si consola questa divinità miserabile che, a guisa di
sacrifici, riceve versi dei poeti piuttosto che frutti. Infine è al
Priapo giardiniere che si offrono frutti di cera, simulacri in cambio
dei quali si domandano al dio frutti veri. I giardini di Priapo si
situano all'altro polo di quei fertili recinti di Afrodite, dei quali
Dioniso sognava di diventare il giardiniere e, mentre quest'ultimo ha
diritto al titolo di eukàrpos (il dio dei bei frutti), Priapo
è per sua natura, come si è detto, àmorphos, cioè laido e
deforme. In un angolo di un paesaggio alessandrino si può vedere
l'immagine di Priapo, ricavata da legno di fico, che sta a guardia di
un piccolo frutteto in cui maturano alcuni fichi. Il dio, messo in
scena in queste priapee (componimenti poetici in suo onore), in cui
prende spesso la parola, proferisce allora minacce di violenze
sessuali, dove i significati del «fico» si associano in giochi di
parole osceni. Gli antichi attribuivano a Priapo, oltre alle sue
funzioni apotropaiche miranti ad allontanare i malfattori o il
malocchio, un'altra missione ancora. Spesso infatti raffiguravano
Priapo in posizione di anàsurma, con il gesto di alzare oscenamente
la veste, dovendoli dio contaminare il suolo, per magia simpatica,
grazie all'immagine fecondante della sua sessualità iperbolica
offerta alla luce del sole.
PRIAPO E L'ASINO
Partecipando a questo
universo ipersessuato e significando, nello stesso tempo, anche le
miserie della vita quotidiana, l'asino, il cavallo del povero,
intrattiene rapporti privilegiati con Priapo.
Illustrando la
somiglianzà tra il dio e la bestia, Lattanzio, uno dei Padri della
Chiesa, racconta che essi fecero una gara per sapere quale dei due,
Priapo o l'asino, avesse il pene più grande. Vinto e in preda alla
collera, il dio uccide l'asino. Questo racconto viene anche usato per
spiegare l'origine del sacrificio di un asino a Priapo nella città
di Lampsaco. Ma questa strana identificazione tra Priapo e l'animale
si legge, ugualmente, in quei versi di Afranio in cui, quando si
pretende che il dio sia figlio di un asino, Priapo prende la parola
per protestare contro questa origine insostenibile. Altre analogie
tra le raffigurazioni dell'asino e quelle di Priapo sono messe in
scena quando l'uno e l'altro rappresentano modelli di goffaggine.
Come per Priapo, ci si burla dell'asino non appena se ne presenta
l'occasione, e un mito ricorda come questo animale, zoticone e privo
di ogni furbizia, fu causa, per l'umanità, della perdita dell'eterna
giovinezza, smarrendo il prezioso phàrmakon che Zeus gli
aveva affidato. O ancora quando, in uno dei Dialoghi delle
cortigiane, Luciano paragona un asino che suona la lira a un amante
vecchio, sdentato e goffo. È la stessa goffaggine che illustra
Ovidio quando Priapo tenta di sedurre la bella Lotis, o quando Vesta,
come un'ombra, si sottrae al suo desiderio e il dio subisce uno
scacco bruciante, ritrovandosi a mani vuote, con il sesso all'aria,
impotente e oggetto dello scherno di tutti. Ma il contesto
etnografico racconta altre disgrazie ancora, biologiche, che
confermano le corrispondenze mitiche proposte dai testi antichi. Così
Aristotele ci informa che il seme degli asini è freddo per natura e
che ci vuole poco perché «il corpo degli asini sia sterile».
È lo stesso autore ad
affermare che gli animali che possiedono un grande membro sono «meno
fecondi di quelli che lo hanno di taglia media, perché lo sperma
freddo non è fecondo e si raffredda percorrendo un cammino troppo
lungo». Aristotele precisa ancora che la natura ha dotato il membro
virile della capacità di essere, o non, in erezione e che «se
questo organo fosse sempre nello stesso stato, costituirebbe un
disturbo». Ora, tale è precisamente il caso di Priapo che, sempre
itifallico, non conosce il minimo rilassamento sessuale.
UNA MALATTIA TERRIBILE
Dunque è la nosologia
antica che permette di meglio comprendere questo aspetto di un dio
ipersessuato, il cui potere, sempre e unicamente fallico, in fondo
sembra secernere solo una forma di impotenza. In effetti, i medici
del mondo antico hanno ben colto l'immagine inquietante che veicolava
Piperfallicità di Priapo. Essi l'hanno espresso, nella loro
nosografia, scegliendo il nome del dio Priapo per una malattia
terribile, il priapismo, che da una erezione infiammatoria, costante
e dolorosa, senza la minima distensione, conduce il paziente a una
morte sterile, in cui il suo sesso, ancora e sempre, resta eretto.
Galieno definisce il priapismo come «un aumento costante di volume
del membro virile, che si gonfia sia nel senso della lunghezza sia
nel senso della circonferenza, senza che vi sia eccitazione al
contatto sessuale». Questo stesso medico, dopo aver indicato come si
può alleviare, se è ancora possibile, questa affezione, che procede
ineluttabilmente verso la morte, stabilisce una distinzione
importante tra questa malattia e un'altra che le assomiglia: la
satiriasi. Mentre accade che quest'ultima possa produrre un'emissione
seminale accompagnata da piacere (hedoné), il priapismo è un
malessere senza sfogo che esclude la minima distensione. Questa
ultima differenza rischia di essere importante.
Se Galieno segnalava che
il termine priapismo era stato scelto in relazione al dio Priapo, si
può agevolmente supporre che la satiriasi derivi dal Satiro
dionisiaco. Allora sembra evidente che l'erezione di natura satirica,
anche nei suoi eccessi, non inibisce né il desiderio né il piacere,
mentre l'erezione contro natura non sfocia che nella morte. Questa
distinzione tra l'itifallismo di Priapo e quello del Satiro potrebbe
mettere in evidenza un'altra divisione: quella che allinea i Satiri
nell'ambito dei demoni della natura, degli essere ibridi, e Priapo,
la cui rappresentazione è sempre antropomorfa, in quello dei
cittadini di Lampsaco. I medici dell'antichità hanno, dunque, in
qualche modo, colpito semanticamente Priapo di priapismo e, nello
stesso tempo, dato da leggere, in questo percorso obliquo, la doppia
impossibilità che non poteva che rinchiudere Priapo nel recinto del
suo giardino: anzitutto, l'impossibilità di una sessualità
smisurata per un umano — Priapo — , di questa sessualità a polo
unico, di cui Aristotele denunciava i pericoli. E, mentre una
sessualità eccessiva sarebbe vivibile per le bestie o i semi-umani,
non condurrebbe gli uomini che all'impotenza, all'erezione dolorosa e
mortifera in cui consiste il priapismo.
L'OSCENITÀ POTERE
SOCIALE
Ma questo ultimo aspetto
enuncia ancora uno scacco. Quello di un dio che, in fin dei conti, si
integra male nell'universo dionisiaco. Qui, accanto ai Pan e ai
Satiri, il cui itifallismo sembrerebbe naturale, Priapo soffre d'una
erezione patologica. Così è fuori di questo spazio dionisiaco che
bisogna comprendere la sessualità sfrenata di Priapo che, lungi
dall'avere intenti sovversivi, significa piuttosto un richiamo
all'ordine.
Nessuna messa in
discussione dell'ordine stabilito connota la sua oscenità che
funziona come un potere sociale. Allorché Priapo, mai attirato verso
qualcosa di marginale, caccia le streghe Canidia e Sagana, è proprio
lui il dio designato da Orazio a rappresentare lo spirito
razionalista che, in quella epoca, si opponeva a ciò che le maghe
potevano evocare di potere parallelo. Priapo sembra avere dunque
avuto una doppia carriera: l'una silenziosa ed efficace, quella degli
oggetti magici senza storia; l'altra, iscritta nei miti che
raccontano il rovescio, inedito, di questo dio fallocrate. Dapprima,
oggetto apotropaico destinato a eludere il malocchio e i malfattori
e, nello stesso tempo, profilattico, contaminante il suolo per
simpatia, l'effige itifallica di Priapo, l'osceno spauracchio
imbrattato di rosso, è di una efficacia tutta magica.
Qui, contrariamente ad
altre divinità che intervengono nel settore agricolo inventando uno
strumento, Priapo non fabbrica mai niente. Partecipa a questo
universo di pratiche silenziose del quotidiano dove il dio si fa
amuleto. All'altro polo di questa divinità apotropaica, un Priapo
che parla molto ma non agisce affatto. Un dio assunto dai galanti
poeti alessandrini e romani, Teocrito, Leonida di Tarante, Virgilio,
Grazio e tanti altri, che scrivono i loro carmi priapei, opere minori
offerte a derisione del dio.
Storia e dossier, anno
III n.18, marzo 1988
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