2.4.14

Georges Dumézil. Un percorso a doppio taglio (Luciano Canfora)

Lo storico delle civiltà indoeuropee Georges Dumézil morì nell'ottobre del 1986 in un ospedale militare non lontano da Parigi. Era nato a Parigi il 4 marzo del 1898 e aveva insegnato nelle università di Varsavia, Istambul e Uppsala. Poi era stato chiamato alla parigina École pratique des hautes études. In occasione della scomparsa Luciano Canfora ne ricostruì il percorso intellettuale e politico sul “manifesto”. (S.L.L.)
Georges Dumézil
Nel terzo capitolo di Se una notte d'inverno un viaggiatore, Italo Calvino immagina l'angoscia del professor Uzzi-Duzii dinanzi ali' irreparabile decadenza del cimmerio : «Nel campo delle lingue represse — dice il professore — adesso ce ne sono tante che attirano i più...il basco...il bretone...lo zingaro... tutti si iscrivono a quelle. Vogliono problemi da dibattere, idee generali da collegare a idee generali. I miei colleghi si adattano, seguono la corrente, intitolano i loro corsi Sociologia del gallese, Psicolinguistica dell'occitano... Col cimmerio non si può. I cimmerii sono scomparsi, come se la terra li avesse inghiottiti», e guardandosi intorno soggiunge: «Questo è un istituto morto d'una letteratura morta di una lingua morta». Georges Dumézil diede opera giovanissimo — è questo il versante meno noto della sua opera — al salvataggio di una lingua non scritta e morente, che intorno al 1970 era parlata ormai da non più che una ventina di persone: il caucasico Ubykh. Di lingue e dialetti caucasici fu esperto insigne. Linguista nato, era stato avviato da ragazzo alla conoscenza del sanscrito dal venerando Michel Bréal, che al College de France era stato il predecessore di Meillet, poi maestro di Dumézil negli studi universitari.
Nato nel 1898, Dumézil si nutrì del clima comparativistico teso all'approfondimento della sociologia del linguaggio tipico della scuola di Durkheim. Oltre che a Meillet, fu vicino a Marcel Mauss e a Marcel Granet, il grande sinologo, che nel suo primo incontro col giovane e promettente Dumézil gli avrebbe detto: «Bravo! Finora lei non ha detto che bestialità, ma erano bestialità intelligenti!». Il «primo» Dumézil, cui Granet indirizzava questo simpatico complimento, non aveva ancora scoperto — ha osservato Arnaldo Momigliano nel rievocare questo aneddoto — la struttura mentale come ordinatrice di una società nel suo insieme.
Il «secondo» Dumézil, non più soltanto linguista straordinario ma scopritore della unitaria (tale a lui sembra) «struttura mentale indoeuropea» capace di permeare l'intera società, fu anche lo studioso portato dall'indagine sulle strutture profonde e itineranti nelle varie società indoeuropee a darsi conto delle interminabili «continuità» che attraversano intere epoche. Frutto maturo di questa nuova fase fu Miti e dei dei Germani del 1939, il libro divenuto celebre per molte e valide ragioni; ma anche per una pagina, passata inizialmente inosservata, nella quale, non senza evidente apprezzamento lo studioso coglieva la continuità appunto tra l'antica mitologia germanica del favoloso Odino ed i rituali neo-pagani di massa del movimento hitleriano. Il paragone in sé era legittimo, data l'intenzionalità del richiamo all'antico paganesimo da parte del nuovo. Ciò che sconcerta è però il tono di adesione con cui l'antropologo sembrava parlare di questo «ritorno»: un avallo — si sarebbe poi detto — al volto criminoso che si celava dietro lo scientismo nazista.
A voler scavare nelle scelte individuali di Dumézil, si sarebbe potuto, a rigore, trovare qualche altra conferma di una tale lettura allarmante. Per esempio — è stato ossservato — la dedica del suo primo libro, Le festin d'immortalité (1924), a Pierre Gaxotte, segretario di Màrras ed esponente di spicco della Action francaise, basta da sola ad indicare «dove egli stesse politicamente» (Momigliano). Naturalmente anche su questo terreno sarebbero necessari dei distinguo, dal momento che, soprattutto al suo sorgere, l'Action francaise si presentava sotto la duplice veste del richiamo a Fustel de Coulanges e dell'ostilità da parte della gerarchla cattolica. E non sarebbe neanche superfluo soggiungere che, pur invischiato nel pétainismo, l'Action francaise aveva finito col trovarsi in una collocazione sempre più nettamente antitedesca, per quanto sterile potesse risultare un tale atteggiamento da parte di un movimento che aveva di fatto agevolato con la sua predicazione la caduta senza onore della Francia. Poiché però la storia è sempre molto più confusa — nell'amministrare i suoi fili — di quanto piacerebbe agli storici, si dovrebbe anche per onestà soggiungere che, almeno per la durata del patto russo-tedesco, l'Action francaise non si era trovata sola a predicare la non resistenza all'invasione tedesca, bensì al fianco del Pcf di Maurice Thorez, poi divenuto — come tutti sanno — «il partito dei fucilati».
Ma ambigua era anche la corrente di pensiero in cui il lavoro di Dumézil era sorto e nel cui ambito si era ben presto autorevolmente affermato: in una parola quel comparativismo antropologico e storico-religioso che aveva avuto nel Ramo d'oro di James Frazer il suo grande archetipo. Dov'era l'ambiguità? Era, tanto per cambiare, nella funzione duplice, nel carattere a doppio taglio di quella corrente di studi.
Tutti sanno quale ruolo innovativo un tale indirizzo di studi ha avuto nel detronizzare due tabù tipicamente reazionari. Da un lato contro l'egemonia classicistica (l'idea cioè della innata superiorità della civiltà classica greca e romana su tutte le altre civiltà coeve considerate come marginali). Dall'altro lato contro l'intangibilità, incomunicabilità (e conseguente sacralità) delle varie storie religiose. É quasi superfluo ricordare il valore dirompente e progressista della irruzione del comparativismo nello studio della storia delle religioni, non soltanto di quelle del mondo classico: il solo nome di Angelo Brelich dovrebbe bastare a chiarire questo assunto. E lo stesso potrebbe dirsi anche per l'antropologia ottocentesca e protonovecentesca, divisa tra la statolatria a base aristotelica di un Meyer e le aperture comparatistiche del Rohde di Psyche : rivolto quest'ultimo — sulla scia de La città antica di Fustel — a comprendere il ruolo del culto degli antenati nelle varie civiltà indoeuropee (indiana, iranica, greca, romana) in antitesi appunto alla tradizionale posizione classicistica, arroccata nella pretesa di «capire i greci coi greci».
Quale l'altra faccia del problema? La perdita — da parte dei comparatisti — di una dimensione storica, l'immobile loro contemplazione delle strutture, la pretesa di rintracciarne attraverso i millenni le continuità: quelle continuità non sempre innocenti, che avevano condotto, senza forzature, il Dumézil di Miti e dei dei Germani a considerare l'odierno neopaganesimo nella luce cattivante di ultima propaggine dell'antico. Perdita della dimensione storica, che può risolversi nella persuasione della apparenza di ogni cambiamento: germe inequivocabile di ogni visione del mondo che finisce con l'annoverare la rottura rivoluzionaria nell'ambito delle illusioni ideologiche da dissipare con i fasci di luce dell'analisi scientifica.
Poiché saltuaria è stata l'esplicitazione, da parte di Dumézil, delle sue scelte politiche - ultima e controversa l'adesione nel 1973 alla rivista della nuova destra Nouvelle École — è ovvio che si potrebbe essere tacciati di pan-politicismo se si volesse ricondurre la comprensione di lui, scienziato, a quest'unica angolazione. Preme di più rilevare, invece, che è nel meccanismo stesso della sua scoperta — l'universalità delle tre «funzioni» — che qualcosa si è inceppato quando lo si è voluto calare nel concreto di specifiche società arcaiche.
Grande era stata l'efficacia della lettura dell'antica società germanica, discutibile quella dell'antica società romana. Le tre funzioni, quand'anche variamente combinate (punto i più delicato era il rapporto tra funzione sacerdotale e sovranità), potevano davvero dar conto di una società tendenzialmente bipolare (patriziato-plebe; padroni-clienti) come quella romana arcaica?
L'obiezione — ripresa da ultimo da Momigliano nel seminario pisano su Dumézil del 1983 — tocca il punto più delicato dell'indagine e intacca proprio quell'elemento che fa di Dumézil uno studioso ben altrimenti interessante degli asettici strutturalisti di stretta osservanza, uno studioso che ha sempre teso — pur tra qualche ripensamento — a collegare le «funzioni» individuate non semplicemente a dei modelli mentali ma a delle caste, a dei ceti. Ragione per cui si può forse dire che il libro suo più riuscito è probabilmente quello del 1968 sul Mahabharata, mito ed epopea (Einaudi 1982), dove la materia si lascia calare in modo straordinariamente convincente nei «moules» avrebbe detto Dumézil, «negli stampi» del modello trifunzionale.


“il manifesto”, 14 ottobre 1986

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