Lo storico delle civiltà
indoeuropee Georges Dumézil morì nell'ottobre del 1986 in un
ospedale militare non lontano da Parigi. Era nato a Parigi il 4 marzo
del 1898 e aveva insegnato nelle università di Varsavia, Istambul e
Uppsala. Poi era stato chiamato alla parigina École pratique des
hautes études. In occasione della scomparsa Luciano Canfora ne
ricostruì il percorso intellettuale e politico sul “manifesto”.
(S.L.L.)
Georges Dumézil |
Nel terzo capitolo di Se
una notte d'inverno un viaggiatore, Italo Calvino immagina
l'angoscia del professor Uzzi-Duzii dinanzi ali' irreparabile
decadenza del cimmerio : «Nel campo delle lingue represse — dice
il professore — adesso ce ne sono tante che attirano i più...il
basco...il bretone...lo zingaro... tutti si iscrivono a quelle.
Vogliono problemi da dibattere, idee generali da collegare a idee
generali. I miei colleghi si adattano, seguono la corrente,
intitolano i loro corsi Sociologia del gallese,
Psicolinguistica dell'occitano... Col cimmerio non si può. I
cimmerii sono scomparsi, come se la terra li avesse inghiottiti», e
guardandosi intorno soggiunge: «Questo è un istituto morto d'una
letteratura morta di una lingua morta». Georges Dumézil diede opera
giovanissimo — è questo il versante meno noto della sua opera —
al salvataggio di una lingua non scritta e morente, che intorno al
1970 era parlata ormai da non più che una ventina di persone: il
caucasico Ubykh. Di lingue e dialetti caucasici fu esperto insigne.
Linguista nato, era stato avviato da ragazzo alla conoscenza del
sanscrito dal venerando Michel Bréal, che al College de France era
stato il predecessore di Meillet, poi maestro di Dumézil negli studi
universitari.
Nato nel 1898, Dumézil
si nutrì del clima comparativistico teso all'approfondimento della
sociologia del linguaggio tipico della scuola di Durkheim. Oltre che
a Meillet, fu vicino a Marcel Mauss e a Marcel Granet, il grande
sinologo, che nel suo primo incontro col giovane e promettente
Dumézil gli avrebbe detto: «Bravo! Finora lei non ha detto che
bestialità, ma erano bestialità intelligenti!». Il «primo»
Dumézil, cui Granet indirizzava questo simpatico complimento, non
aveva ancora scoperto — ha osservato Arnaldo Momigliano nel
rievocare questo aneddoto — la struttura mentale come ordinatrice
di una società nel suo insieme.
Il «secondo» Dumézil,
non più soltanto linguista straordinario ma scopritore della
unitaria (tale a lui sembra) «struttura mentale indoeuropea» capace
di permeare l'intera società, fu anche lo studioso portato
dall'indagine sulle strutture profonde e itineranti nelle varie
società indoeuropee a darsi conto delle interminabili «continuità»
che attraversano intere epoche. Frutto maturo di questa nuova fase fu
Miti e dei dei Germani del 1939, il libro divenuto celebre per
molte e valide ragioni; ma anche per una pagina, passata inizialmente
inosservata, nella quale, non senza evidente apprezzamento lo
studioso coglieva la continuità appunto tra l'antica mitologia
germanica del favoloso Odino ed i rituali neo-pagani di massa del
movimento hitleriano. Il paragone in sé era legittimo, data
l'intenzionalità del richiamo all'antico paganesimo da parte del
nuovo. Ciò che sconcerta è però il tono di adesione con cui
l'antropologo sembrava parlare di questo «ritorno»: un avallo —
si sarebbe poi detto — al volto criminoso che si celava dietro lo
scientismo nazista.
A voler scavare nelle
scelte individuali di Dumézil, si sarebbe potuto, a rigore, trovare
qualche altra conferma di una tale lettura allarmante. Per esempio —
è stato ossservato — la dedica del suo primo libro, Le festin
d'immortalité (1924), a Pierre Gaxotte, segretario di Màrras ed
esponente di spicco della Action francaise, basta da sola ad indicare
«dove egli stesse politicamente» (Momigliano). Naturalmente anche
su questo terreno sarebbero necessari dei distinguo, dal momento che,
soprattutto al suo sorgere, l'Action francaise si presentava sotto la
duplice veste del richiamo a Fustel de Coulanges e dell'ostilità da
parte della gerarchla cattolica. E non sarebbe neanche superfluo
soggiungere che, pur invischiato nel pétainismo, l'Action francaise
aveva finito col trovarsi in una collocazione sempre più nettamente
antitedesca, per quanto sterile potesse risultare un tale
atteggiamento da parte di un movimento che aveva di fatto agevolato
con la sua predicazione la caduta senza onore della Francia. Poiché
però la storia è sempre molto più confusa — nell'amministrare i
suoi fili — di quanto piacerebbe agli storici, si dovrebbe anche
per onestà soggiungere che, almeno per la durata del patto
russo-tedesco, l'Action francaise non si era trovata sola a predicare
la non resistenza all'invasione tedesca, bensì al fianco del Pcf di
Maurice Thorez, poi divenuto — come tutti sanno — «il partito
dei fucilati».
Ma ambigua era anche la
corrente di pensiero in cui il lavoro di Dumézil era sorto e nel cui
ambito si era ben presto autorevolmente affermato: in una parola quel
comparativismo antropologico e storico-religioso che aveva avuto nel
Ramo d'oro di James Frazer il suo grande archetipo. Dov'era
l'ambiguità? Era, tanto per cambiare, nella funzione duplice, nel
carattere a doppio taglio di quella corrente di studi.
Tutti sanno quale ruolo
innovativo un tale indirizzo di studi ha avuto nel detronizzare due
tabù tipicamente reazionari. Da un lato contro l'egemonia
classicistica (l'idea cioè della innata superiorità della civiltà
classica greca e romana su tutte le altre civiltà coeve considerate
come marginali). Dall'altro lato contro l'intangibilità,
incomunicabilità (e conseguente sacralità) delle varie storie
religiose. É quasi superfluo ricordare il valore dirompente e
progressista della irruzione del comparativismo nello studio della
storia delle religioni, non soltanto di quelle del mondo classico: il
solo nome di Angelo Brelich dovrebbe bastare a chiarire questo
assunto. E lo stesso potrebbe dirsi anche per l'antropologia
ottocentesca e protonovecentesca, divisa tra la statolatria a base
aristotelica di un Meyer e le aperture comparatistiche del Rohde di
Psyche : rivolto quest'ultimo — sulla scia de La città
antica di Fustel — a comprendere il ruolo del culto degli
antenati nelle varie civiltà indoeuropee (indiana, iranica, greca,
romana) in antitesi appunto alla tradizionale posizione
classicistica, arroccata nella pretesa di «capire i greci coi
greci».
Quale l'altra faccia del
problema? La perdita — da parte dei comparatisti — di una
dimensione storica, l'immobile loro contemplazione delle strutture,
la pretesa di rintracciarne attraverso i millenni le continuità:
quelle continuità non sempre innocenti, che avevano condotto, senza
forzature, il Dumézil di Miti e dei dei Germani a considerare
l'odierno neopaganesimo nella luce cattivante di ultima propaggine
dell'antico. Perdita della dimensione storica, che può risolversi
nella persuasione della apparenza di ogni cambiamento: germe
inequivocabile di ogni visione del mondo che finisce con l'annoverare
la rottura rivoluzionaria nell'ambito delle illusioni ideologiche da
dissipare con i fasci di luce dell'analisi scientifica.
Poiché saltuaria è
stata l'esplicitazione, da parte di Dumézil, delle sue scelte
politiche - ultima e controversa l'adesione nel 1973 alla rivista
della nuova destra Nouvelle École — è ovvio che si potrebbe
essere tacciati di pan-politicismo se si volesse ricondurre la
comprensione di lui, scienziato, a quest'unica angolazione. Preme di
più rilevare, invece, che è nel meccanismo stesso della sua
scoperta — l'universalità delle tre «funzioni» — che qualcosa
si è inceppato quando lo si è voluto calare nel concreto di
specifiche società arcaiche.
Grande era stata
l'efficacia della lettura dell'antica società germanica, discutibile
quella dell'antica società romana. Le tre funzioni, quand'anche
variamente combinate (punto i più delicato era il rapporto tra
funzione sacerdotale e sovranità), potevano davvero dar conto di una
società tendenzialmente bipolare (patriziato-plebe; padroni-clienti)
come quella romana arcaica?
L'obiezione — ripresa
da ultimo da Momigliano nel seminario pisano su Dumézil del 1983 —
tocca il punto più delicato dell'indagine e intacca proprio
quell'elemento che fa di Dumézil uno studioso ben altrimenti
interessante degli asettici strutturalisti di stretta osservanza, uno
studioso che ha sempre teso — pur tra qualche ripensamento — a
collegare le «funzioni» individuate non semplicemente a dei modelli
mentali ma a delle caste, a dei ceti. Ragione per cui si può forse
dire che il libro suo più riuscito è probabilmente quello del 1968
sul Mahabharata, mito ed epopea (Einaudi 1982), dove la
materia si lascia calare in modo straordinariamente convincente nei
«moules» avrebbe detto Dumézil, «negli stampi» del modello
trifunzionale.
“il manifesto”, 14
ottobre 1986
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